S.Irene di Tessalonica

Nella Macedonia, in una città chiamata Tessalonica, l’odierna Salonicco, vivevano agli inizi del IV secolo, tre giovani sorelle. I genitori erano pagani, ma le tre fanciulle si erano segretamente convertite, e col Battesimo avevano preso tre nomi che erano i simboli di altrettante virtù cristiane: Irene, che in greco vuol dir pace; Chionia, che vuol dir purezza; Agape, che vuol dire carità. Le tre fanciulle cristiane coltivavano infatti le tre virtù della pace, della purezza e della carità nelle loro segrete stanze verginali, dove nutrivano la fede sulle pagine dei libri sacri. Da pochi anni era stata terminata la traduzione in lingua greca della Bibbia, la cosiddetta « versione dei Settanta », perché compilata, secondo la leggenda, da settantadue sapienti, nello spazio di settantadue giorni. La Bibbia, nella versione greca, era tra i libri più preziosi custoditi dalle tre sorelle. Irene era la più giovane di tre sorelle; le altre due erano Agape e Chionia.

Secondo la tradizione, questi non erano i loro nomi originali: divenute cristiane, furono battezzate e furono loro attribuiti i nomi di Agape, nome con il quale i Greci chiamavano la Carità, la stessa predicata da Paolo di Tarso durante i suoi viaggi; Chionia, che in greco significa neve, a ricordo della purezza; e Irene, che simboleggia la pace. Esse vivevano ad Aquileia ed erano figlie di genitori pagani.Oltre che ornate di virtù, le tre sorelle dovevano essere anche molto ricche e di nobili origini[2].Agape, Chionia e Irene furono sempre additate come modello di santità, da parte degli altri fedeli; alla giovanissima Irene furono addirittura affidati i Libri Sacri contenenti la parola di Dio, ed ella fu sempre una custode affezionata e scrupolosa: li depose dentro delle cassette e li posò insieme ai tanti scrigni che racchiudevano i suoi innumerevoli gioielli. Nel febbraio del 303 l’imperatore Diocleziano, con il primo editto di Nicomedia, ordinò la distruzione di tutti i libri sacri cristiani. Le tre sorelle non tradirono la loro fede: abbandonarono la loro casa e le loro famiglie e si rifugiarono in montagna, dove trascorsero un breve periodo pregando e soffrendo per i mali che il Cristianesimo stava patendo. Poco tempo dopo quando il pericolo sembrava ormai scampato, ritornarono in città. Non sono chiare le motivazioni che spinsero le sante a trasferirsi a Tessalonica e le circostanze entro le quali esse furono catturate; esistono molte versioni dei fatti, nessuna delle quali è da ritenersi attendibile, dato che non sono documentate in alcun modo. Il bollandista Henschenius riportò una pia leggenda[3]: una notte san Crisogono, (martire morto poco tempo prima) apparve in sogno al presbitero di Aquileia, Zoilio, e gli annunciò che entro nove giorni le tre sorelle sarebbero state catturate. Di lì a poco anche Zoilio sarebbe stato arrestato e condannato a morte; preoccupato per la sorte delle tre sante, le fece trasferire a Tessalonica, dove possedevano un’altra casa, e le affidò a santa Anastasia. In questa città, in cui si contavano migliaia di fedeli, avrebbero certamente trovato un rifugio migliore, in quanto, essendo meno conosciute, si sarebbero certamente mischiate tra la grande folla dei Cristiani. Le cure scrupolose di Zoilio e l’affetto di santa Anastasia furono però del tutto inutili: Irene, Agape e Chionia furono scoperte in poco tempo e rinchiuse in carcere[4].Tutti questi aneddoti sono ovviamente stati introdotti a causa dell’impossibilità, da parte dell’autore, di giustificare lo spostamento che le tre martiri avevano compiuto da Aquileia alla lontana Grecia; in ogni caso sta di fatto che nel 304 Agape, Chionia e Irene si trovavano a Tessalonica, e qui furono imprigionate in seguito al quarto editto imperiale. Sicuramente le tre sorelle possedevano effettivamente una casa in quella città: questo è deducibile direttamente dal dialogo tra Dulcezio (governatore e presidente del tribunale) e Irene[5]. È inoltre certo che le tre martiri siano state catturate nella città di Tessalonica, al contrario di quanto sostengono altre versioni dei fatti, e che questa volta non abbiano tentato (o forse non abbiano fatto in tempo) di rifugiarsi in collina. Per qualche tempo dopo la loro morte, infatti, vi fu tra il popolo tessalonicese la credenza che esse siano invece state trovate su un’altura vicino alla città, presso la quale si erano nascoste; del resto molti altri cristiani, in quel periodo furono catturati nei loro rifugi montani ed imprigionati. A distanza di poche decine di anni, in Tessalonica, vi era ancora un colle, il Monte dei Martiri, sul quale, secondo la tradizione, Agape, Chionia ed Irene avevano sofferto, e dove Irene, cantando e lodando Dio, era salita sulla catasta.

Racconto del Martirio

Era la prima metà di marzo del 304; le tre sante sorelle furono presentate davanti a Dulcezio, governatore di Tessalonica e presidente del tribunale, insieme ad altri cristiani: Agatone, Eutichia, Cassia e Filippa. L’accusa mossa contro di loro era di non aver rispettato l’editto di Nicomedia, sottoscritto dall’imperatore Diocleziano; esso ordinava a tutti i cittadini romani di cibarsi delle carni che erano state offerte in sacrificio agli dei[6]. Tutti gli accusatori furono allora spinti a compiere il loro atto di devozione verso gli dei romani e invitati dal presidente a mangiare le carni delle bestie immolate agli dei, ma essi persistettero nel loro rifiuto. Allora Dulcezio, visto l’ostinato rifiuto da parte degli accusati di rinunciare alla loro fede cristiana, scrisse e pronunciò la sua prima terribile sentenza:

E lesse la sentenza scritta da un foglio: «Poiché Agape e Chionia, con animo ribelle, hanno nutrito opinioni contrarie al divino decreto dei nostri Signori Augusti e Cesari, ed inoltre venerano il culto dei cristiani, vano, antiquato ed odioso a tutte le persone pie, ho ordinato che siano messe al rogo. Ed aggiunse: Agatone, Irene, Cassia, Filippa ed Eutichia[7], a causa della giovane età, per il momento saranno gettati in carcere.»

Secondo alcuni testi, mentre le sorelle erano in prigione Dulcezio andò a visitarle nottetempo per “cibarsi dei loro amplessi”; tuttavia, per grazia divina, la sua mente fu ottenebrata e invece di entrare nella loro cella egli si introdusse nelle vicine cucine, e iniziò ad amoreggiare con pentole e pignatte come se fossero ragazze.

Alcuni panegirici riportano che le due sante, salite sulla pira, affidarono le loro anime al Signore; Dio, commosso dalle loro estreme e disperate invocazioni, non volle far patire loro ulteriori pene rispetto a quelle che avevano già sofferto: questo era il desiderio che esse avevano espresso durante la loro ultima preghiera. Le fiamme avrebbero dunque ucciso Chionia e Agape, ma lasciarono miracolosamente intatti i loro corpi e le loro vesti.

Passati alcuni giorni, furono rinvenuti gli scrigni appartenenti ad Irene contenenti i Testi Sacri, i quali, sempre secondo il quarto editto imperiale, dovevano essere stati distrutti; la santa fu allora nuovamente condotta di fronte a Dulcezio, il quale la sottopose ad un lungo ed estenuante interrogatorio[8]. Irene non ebbe alcun timore ad affrontare la durezza del presidente, che la invitò nuovamente ad obbedire all’editto imperiale. Irene, nonostante avesse assistito alla condanna delle sue sorelle maggiori, fu risoluta

Dulcezio emise allora una seconda sentenza contro di lei:

«Le tue sorelle, conformemente all’ordine impartito, furono bruciate vive secondo la sentenza. Quanto a te, perché sei stata colpevole anche in precedenza, sia per la fuga, sia per aver nascosto questi scritti e queste pergamene, io ordino che tu non sia affatto privata della vita alla stessa maniera, ma ordino che, mediante la costrizione degli agoranomoi[9] di questa città e dello schiavo pubblico Zosimo, tu sia esposta nuda in un bordello, ricevendo dal palazzo del governatore un unico pane al giorno; e gli agoranomoi non permetteranno che tu ti allontani.» Il presidente fece allora requisire tutti i cofanetti di gioielli di Irene, e bruciare gli scritti. Sempre secondo la Lanata, più che una condanna definitiva, questa voleva essere una sorta di violenta intimidazione, forse a farle rispettare l’editto di Diocleziano, o forse a confessare i nomi dei suoi complici.

Irene rimase nel lupanare[10] per qualche giorno, ma, evento straordinario e che ha dell’incredibile, nonostante la sua giovane età e la sua avvenenza: «per la grazia dello Spirito Santo che la proteggeva e la conservava pura per il Dio Signore di tutte le cose, nessuno osò avvicinarla, o anche arrivare a rivolgerle una parola ingiuriosa».

Allora Dulcezio fece richiamare di nuovo la santa al suo cospetto e disse: «Persisti sempre nella tua follia?» Irene disse: «Non è follia, ma pietà.» Il governatore, emise, quindi la sua ultima e definitiva sentenza contro Irene: «Poiché Irene non ha voluto ubbidire all’ordine degli imperatori e sacrificare, e per di più venera una setta detta cristiana, per questo motivo, come anche in precedenza le sue sorelle, ho ordinato che anch’essa sia bruciata viva».

Era il primo aprile del 304: Irene arrivò sul luogo del supplizio pregando: salì da sola sulla catasta di legname ardente e, mentre cantava salmi ed inni al Signore, consumò il proprio atroce martirio.

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